Qualcosa può accadere: l’elettronica futuristica di Matteo Duccoli

Immaginate di essere rinchiusi in una prigione dove le sbarre si muovono in sincrono, suggerendo vie d’uscita che si chiudono in un istante. Una stanzetta claustrofobica ma di quiete è il luogo in cui questa esperienza ti catapulta, un’anticamera scura dove istinti sepolti parlano una lingua primitiva: diversa e uguale per tutti, il dialetto del turbamento.

Mi pare di poter individuare un filo conduttore che unisce questo tipo di performance: proiezioni e musica che nascono dal sudicio delle strade, astrazione di un tormento, di una bruttura che diventa trend ed estetica dominante. Cosa ne pensi?

Non sono d’accordo. Per quanto mi riguarda, non mi soffermo mai sulla soggettività non questionabile di “bello/brutto” ma cerco piuttosto di ragionare su elementi che possano essere funzionali a un determinato discorso. Sicuramente gli stimoli da cui prendo spunto riguardano vari aspetti dell’esperienza estetica quotidiana, dalle strade che attraversiamo alla tecnologia che utilizziamo, ma senza che questo tipo di esperienza venga filtrata dai pregiudizi che affligono questi contesti.

Parlaci un po’ della tua performance Audiovisual test #3. Dove ci vuoi portare?

Audiovisual test #3 è un tentativo di inserirsi nello scorrere del flusso spazio-temporale di un fruitore, in modo da creare un’esperienza che segni uno stacco tra il prima e il dopo di essa.

Uno dei motivi per cui mi sono avvicinato alla musica elettronica è il fascino che ha esercitato su di me il fatto che sia sempre stata libera dall’obbligo di rappresentare qualcosa, rivestendo un ruolo simile a quello dell’arte astratta.In questo modo la musica elettronica, dal rave alla disco, pone le condizioni, crea un ambiente per cui qualcosa possa accadere, più che raccontare qualcosa che è accaduto.

Da qui nasce la scelta di tracce audio che facciano esplicito riferimento alla techno.

Per quanto riguarda l’immagine, come dicevo prima, cerco di prendere spunto dall’esperienza estetica quotidiana, ovvero le architetture che attraversiamo, i mezzi che prendiamo, gli schermi che osserviamo, e quasi tutto ciò che è artificiale con cui ci interfacciamo.

Cerco sempre di non fare riferimento a qualcosa in particolare, e di lasciare semplicemente che le forme astratte evochino vagamente qualcosa di ormai irriconoscibile, per favorire l’aspetto effimero del “qui e ora” piuttosto che una narrazione.

A dire la verità, non so nemmeno io dove voglio portare il pubblico, attraverso la caratteristica performativa del mio lavoro decido di volta in volta quale direzione dare al suono e all’immagine, cercando di interpretare il feedback di chi assiste e in base al momento in generale.

Per i profani, qual’è la scena più vivace di ispirazione per questo genere di performance audio video?

A livello geografico credo che Germania e Inghilterra siano i paesi più vivaci per questo tipo di eventi, soprattutto perchè queste performance, nel mio caso, si collocano esteticamente in uno spazio di confine tra il clubbing, il rave, il concerto, e l’installazione che ammicca all’arte contemporanea, tutti ambiti molto vivi in quei paesi.

In tutta Europa, comunque, sempre più spesso si organizzano questi eventi in concomitanza con mostre d’arte contemporanea.

Un’altra “scena” è quella dei festival, anch’essi per lo più in Europa, che però è troppo spesso legata all’aspetto tecnico della realizzazione, alla spettacolarità cercata a tutti i costi, e non all’idea, nè al contenuto.

Se dovessi aggiungere una frase a ripetizione o a chiusura di un tuo brano, quale sarebbe?

Non ci avevo mai pensato e non credo che sia compatibile con il progetto, ma se proprio proprio dovessi, allora aggiungerei un messaggio come “ecnamrofrep al opod ereb ad imetirffo” che non vuol dire niente ma suona bene.


Giulia Solari

FFTS: istantanea disturbata

Ai tempi del 2.0 la soglia d’attenzione standard gioca a calcio saponato ai limiti di un burrone. In questo panorama, veicolare un messaggio diventa una questione di simultaneità sopratutto a livello di amusement, ci stiamo abituando a fruire di beat, frazioni artistiche eterogenee, che stuzzicano il gusto senza suggerire il nome del piatto, dandoci la possibilità di immaginare da che tipo di torta stiamo attingendo, in realtà senza vederla ne mangiarla davvero. In questo contesto l’esperienza sensoriale è istantanea ma permeante. Non si divora più la musica, la performance con ingordigia, la si assapora a stomaco vuoto. La performance di FFTS è questo, un buffet minimalista con punte di amaro, piccante e acido. Godibilissimo.

FFT è un algoritmo che analizza il suono, che utilizziamo molto per rendere le nostre animazioni reattive agli impulsi sonori. FFT più la S finale dato che siamo due.

Una performance a tratti disturbante, colonne di pixel che si scontrano, gomitoli geometrici di fili intricati. Il nero più nero. Da profana, quanto concordate sulla percezione che il vostro lavoro porti verso un’introspezione tormentata più che verso una contemplazione, un ascolto asettici?

La nostra performance, da un punto di vista audio/visivo, è ideata per far sì che lo spettatore non si accomodi sul suo feeling iniziale ma sia protagonista di un viaggio scomodo, fatto di sbalzi e curve tortuose. Ad un’estetica varia e d’impatto abbiniamo un sound deciso, a tratti ossessivo che mira ad infastidire, a turbare a tal punto da far insorgere un senso di sottomissione nell’interlocutore muto, imprigionato in una stanza.

Da cosa traete ispirazione per le performance? Rumori urbani, esperienze, sentimenti personali?

Samuele:

È quasi impossibile individuare un’unica fonte di ispirazione/derivazione estetica; qualsiasi spunto è valido ed entra naturalmente nel soggettivo della creazione: dai lavori dei grandi artisti, ai videoclip musicali, alle mostre che ho visitato, alla grafica tradizionale.  Certamente la mia formazione accademica, in un istituto d’arte a indirizzo grafica,  influenza le mie scelte stilistiche ed estetiche, che sono legate ai miei lavori creativi in senso lato, da sempre. Sto lavorando ad una mia cifra stilistica per la parte sonora, tentando di immergermi più nel “campo”, specializzarmi, per il momento il sound è affidato all’orecchio sopraffino del mio amico Nicolò Cervello.

Giovanni:

L’ispirazione mi può colpire in qualsiasi momento della giornata, spesso dietro a quello che faccio c’è un’attenta osservazione dell’ambiente urbano che mi circonda. Mi capita molte volte di stare ad osservare gli schermi delle stazioni, molti, per la poca manutenzione sono come bloccati in un altro tempo, generando una serie di disturbi grafici fantastici. L’idea può sorgere dalla struttura di un ambiente fatiscente, dalle crepe dell’asfalto, dalla casualità con la quale viene ammassata la spazzatura nella mia via di casa, dalle feste.

Quanto credete che questo genere di performance siano specchio di una generazione? sempre per i profani, esiste un gruppo di riferimento, una sorta di “manifesto artistico” (anche sotteso) che traccia le linee di questa estetica?

Questo genere di performance non lo vediamo legato ad una generazione in particolare, almeno in Italia. Il punto di riferimento è tutto il filone della grafica generativa e la produzione di animazioni in real time con contaminazioni glitch. Siamo dell’idea che non ci sia un genere ben definito, quello che ci piacerebbe fare sarebbe abituare il pubblico a esperienze nuove, spaziare dalla semplice idea di visual inteso come sfondo di una serata musicale e arrivare ad un ibrido dal sapore installativo e performativo. Un gruppo di riferimento per quanto riguarda l’Italia è il collettivo Otolab, vicino all’idea di performance che intendiamo. Più che manifesto artistico esiste un’estetica da cui trascende tutto un genere che è quello dettato dai canoni di artisti di grosso calibro come Alva Noto o Rioji Ikeda.

Chi siete in un’immagine?

Se dovessimo definirci con una figura retorica saremmo contemporaneamente la calma dopo la tempesta e la tempesta prima della calma. Quello che cerchiamo di fare è catapultare lo spettatore in una situazione psico-fisica altalenante, il bianco che si scontra con il nero, suoni distesi e ritmi martellanti, illusioni spaziali che compongono l’ambiente bio-meccanico in cui viviamo.

Di Giulia Solari.

Egreen, la provincia e il rap italiano

Ho incontrato Egreen aka Nicholas Fantini dopo il suo concerto al Circolo Gagarin di Busto Arsizio. Ora vive in un’enorme palazzina di Milano Nord, “un tentativo di Le Corbusier fallimentare”, è caduto in motorino, si è tatuato e mi ha raccontato un po’ di cose sul rap, sul passato, sul futuro e sul suo disco More Hate, che sta ancora portando in giro per tutta Italia, a tutti i FANtini.

A fine gennaio hai portato More Hate al Circolo Gagarin e come tua abitudine hai buttato giù i muri. Come pensi sia andata e come ci si sente a tornare a Busto Arsizio?

Credo sia andata molto bene, soprattutto a livello tecnico, l’impianto al Circolo Gagarin era una bomba. Dietro le quinte di questa intervista non è così scontato trovare una struttura che si presti in maniera professionale al 100% ad un live act di questo tipo, e in questo caso mi sono trovato benissimo. Emotivamente ero molto teso perché Busto, per via dei miei trascorsi adolescenziali, ha rappresentato in diverse sfumature un periodo e un luogo molto formativi, nel bene e nel male. Adesso sono a Milano, alle mie spalle mi sono lasciato tante cose belle ed altre un po’ meno.

Cosa pensi ti abbia dato e cosa tolto il vivere in provincia?

Come l’ha definita un mio caro amico presente al live, Busto è sempre stata ritenuta un po’ da tutti noi che abbiamo sempre fatto scuola tra la provincia e Milano, una sorta di purgatorio. Milano, è una realtà di impatto sotto diversi punti di vista, ma appena ritorni in treno sai di ritrovarti subito in una situazione molto provinciale e chiusa, che se non hai degli obiettivi chiari o diverse aspettative, è molto facile che sia una di quelle realtà che ti risucchiano.

Ho cercato di prendere il meglio dal peggio, per citare i Next Diffusion. Ho preso il meglio da una situazione per la quale tu parti già come uno di quelli che è destinato a fare un cazzo, e so che tu puoi capire esattamente quello che voglio dire.

Per tutti quelli che stanno cercando il proprio posto nel proprio settore, non è stato e non è facile. Non voglio fare il martire, ma la difficoltà era proprio quella: vivere in provincia ma abbastanza vicino per vedere tutto. Di certo ho perso molto dal punto di vista dei rapporti umani, ma per me la priorità è sempre stata il rap: più che la provincia, è forse lui che mi ha tolto molte cose.

Quando giochi in casa, come per la data al Gagarin, c’è sempre quell’atmosfera a metà tra compleanno in famiglia e concerto hardcore. Ma la tua fotta rimane la stessa in tutta Italia. Come è stato agli inizi, affrontare città come Bologna, o Roma, e come le hai conquistate?

Bella domanda. Sono contento che tu me l’abbia fatta perché è una roba alla quale noi che facciamo un rap di un certo tipo teniamo parecchio. La mia vera palestra per questo genere di situazioni è stata sicuramente Milano, il primo impatto forte con il concetto del confrontarsi con gli altri. Una città che nell’ambito del rap, avendo una gran tradizione, non regala niente a nessuno. Ora ho l’onore di fare molti concerti a Milano, la vivo in maniera diversa, è sicuramente la mia data in casa.

Ma mi ricordo le mie prime battles, di quando arrivavi nei posti e ti accoglievano tutti incappucciati a braccia conserte, che li vedevi che erano lì ad aspettare che facevi la cazzata.

Piano piano, sempre con le gare di freestyle, sono andato a battezzarmi da solo nelle varie città pesanti in Italia, che per me sono Milano, Bologna, Torino, Napoli, Roma. Città dove c’è molta aspettativa, proprio perché ci sono state delle scuole che hanno fatto molto. La prima volta che ho suonato a Roma me la ricordo bene, sono andato da Mr. Phil un’estate, pochi giorni dopo ferragosto ed ero davvero tesissimo, perché sentivo il peso di suonare in una città importante che ha fatto molto per il mio genere, ed è qualcosa che incide molto a livello psicologico. Poi ho avuto la fortuna che in tutte queste città ho creato molte connessioni, e ad un certo punto non ci ho neanche più pensato, ma quando sono sul palco non dimentico mai di ricordare che non bisogna mai dare nulla per scontato.

Recentemente, dopo tanti anni, sono finalmente riuscito a suonare a Napoli città. E’ stato molto bello perché c’erano molti colleghi come Speaker Cenzou, c’era Ntò dei Co’Sang, Oyoshe, e quando vedi dei locals che ti vengono a sentire capisci che c’è curiosità, se non rispetto.

Ora me la vivo tranquillamente, forse suono più in queste città che a Milano stessa, ma sono contento che hai tirato fuori questa cosa, perché è sempre utile ricordare, anche a me stesso, di quanto queste scuole di pensiero abbiano fatto in Italia, di quanto sia giusto onorarle e quanto sia piacevole che tu venga onorato, perché non è per niente scontato, soprattutto al giorno d’oggi.

La prima ondata del rap italiano era per natura molto autoreferenziale e autocelebrativa, spesso per tematiche molto rivolta verso se stessa: forse anche per questo c’era un grande senso di appartenenza alla cultura hip hop, accompagnato ad un atteggiamento molto intransigente nei confronti di chi provava ad approcciarsi al rap come semplice genere musicale o a contaminarlo con sonorità più morbide, estranee da un’ottica hardcore. Ora con lo sdoganamento del rap quale genere popolare, sostituitosi alla musica leggera, si è assistito ad una perdita quasi totale di questo senso di appartenenza. Credi sia un fenomeno di reazione?

Credo che sia una conseguenza. Io considero come prima ondata del rap tutto ciò che è stato fatto dal ’90 al ’96. In quel periodo, sperando di non fare gaffe storiche, il rap era una cosa molto legata a determinati movimenti politici. Le strutture che permettevano di esprimersi erano i centri sociali o spazi autogestiti sul filone sinistra-anarchico.  Inequivocabilmente il fatto che questo genere si sia espresso per anni in contenitori di questo tipo non ha potuto fare a meno di essere messo assieme ad un contesto ideologico ben preciso e definito. Sicuramente ci si credeva molto.

Poi c’è stata quella che io definisco la Golden Age italiana, dove è venuta fuori l’Area Cronica con i Sottotono, gli Otierre, sono nate scuole di pensiero completamente slegate dall’ambito politico: qui c’è stato uno sdoganamento del genere ed è qui che è diventato autoreferenziale: c’era chi sosteneva che bisognava fare la lotta e c’era chi diceva “Io sono il vero Hip Hop”.

Il periodo dell’essere real, “io sono vero e tu no”, “tu sei un sucker”, per me è stato il periodo più alto, in assoluto, che ha dato vita a dischi incredibili, partendo da SxM e finito con 107 elementi, o anzi, con La grande truffa del rap: Gente Guasta ha chiuso il periodo più bello. Ad un certo punto Aspettando il sole di Neffa aveva fatto disco d’oro. Una canzone incredibile di un artista hardcore underground, che era riuscito a mischiare musicalità e poesia, diventata popolarissima, e allo stesso tempo c’erano anche i Sottotono che viaggiavano in limousine.

Oggi alla fine rimangono le canzoni, quindi i Sottotono secondo me hanno fatto la storia tanto quanto Neffa e la scuola bolognese. Io, per il mio personale approccio, metto Gruff e Tormento sullo stesso piano, anche se qualcuno forse mi ucciderà.

Comunque, dopo il tracollo di questo genere, Mondo Marcio ha firmato il contratto con una delle più grandi major di quei tempi, con Solo un uomo. E da lì siamo arrivati qui. Siamo nel 2017 e le cose sono cambiate totalmente. C’è un’infinità di gente che fa un milione di views in un attimo, ora tutto è stato sdoganato e non ci sono più paletti di nessun genere: ora non è più una guerra di chi è real e di chi è fake. Ma lasciando perdere l’hype del momento: quante sono le cose che ci riascolteremo tra dieci anni? Il tempo ci dirà cosa è stato fatto bene e cosa no.

More Hate è un inno all’odio, ma un odio diverso da Beats&Hate, forse più maturo e sedimentato. In una recente intervista hai detto tu stesso che non ci sono pezzi come Il Grande Freddo o 26 Dicembre, e pensi che questa cosa possa aver deluso qualcuno. “Però io non è che faccio questi pezzi nei dischi così poi so che c’è il mio pezzo emo. Li faccio quando li sento”. Come ti senti a inizio 2017? Cosa vuoi fare entro il 3016?

[Ride] Vorrei riuscire a fare altri dischi, uno anche quest’anno. Mi sento travolto, penso ai cambiamenti che stanno accadendo in questo momento nel mondo musicale: credo fermamente che l’evoluzione artistica, sotto certi aspetti, sia una cosa necessaria, ma credo anche che a pallacanestro si gioca sempre con una palla rotonda che deve essere messa dentro un cazzo di canestro. Io ho avuto un percorso troppo lungo per provare a fare altro: io so bene cosa faccio, so bene perché lo faccio, quindi ho una presa di coscienza che mi permette di sapere come lo devo fare. Non mi sento in dovere di adeguarmi: è una cosa che accuso ma va bene così.

Il disco e pieno zeppo di richiami e cit dall’east coast, ma anche una serie di featuring e produzioni che lo rendono un progetto particolarmente azzeccato. Er Costa in Milano-Roma pt II, Nex Cassel in Xerox, poi Claver Gold, Attila.. Bene Così e Bataclan insieme a Smooth Operator sono quelle che lasciano di più il segno a mio avviso…

A me piace molto Meglio di scopare, il beat di Fid Mella è una bomba, in sostanza è il classico pezzo da battaglia di Egreen: strofa, ritornello scratchato, strofa. Però sono molto legato a tutti i pezzi che hai citato, e soprattutto al pezzo con Attila. E’ la prima volta che faccio una cosa del genere, un po’ fuori, forse, dai miei canoni, ma tengo molto a lui come persona e credo molto in quello che lui fai: è un po’ l’Egreen del reggae, è un fuoriclasse e come ogni fuoriclasse è un po’ un ingestibile, ma quello è il bello dei fantasisti. L’unica cosa che mi fa un po’ paura nel disco è che mi rendo conto che alle volte sono molto pesante. Anche se mi dici di aver apprezzato pezzi come Bataclan e Smooth Operator, una delle critiche che mi sono state fatte in termini professionali è che a volte non c’è struttura nelle cose che scrivo. Ma il mio approccio alla musica è questo: o viene capito o preso come una pecca. Anche Milano-Roma pt. II con Er Costa è un pezzo molto importante e sono contento che il feedback sia stato molto positivo, dato che poteva essere rischioso da un certo punto di vista, perché dico cose abbastanza pesantucce. In ultima analisi difficilmente butto fuori un progetto del quale non sono soddisfatto.

Anche se la scena si sta trasformando sempre più in una sagra, chi reputi stia spingendo nella direzione giusta a livello di emergenti?

Premetto che il filtro che farà la cernita e farà capire a tutti noi chi aveva ragione e chi no sarà solo il tempo. Mi tocca dirti che tutti gli emergenti ora, anche quelli che non apprezzo, lo stanno facendo tutti bene e ti dico anche il perché:  le prime nuove realtà esplose l’anno scorso, come Rkomi, Sphera, Tedua, Vegas Jones, a prescindere dai miei gusti, loro stanno facendo esattamente quello che vogliono fare, e hanno avuto successo. Questa cosa poteva essere presa da subito come uno scherzo, una barzelletta, e loro ci avrebbero comunque messo la faccia. Forse una volta non era così, una volta dovevi fare quello che si stava facendo e basta. Per assurdo, anche la Dark Polo Gang: Sick Luke gli manda i beat, loro li ascoltano, si prendono bene e si fanno le loro canzoni.

Adesso sono tutti battitori liberi, non conta il mio parere personale, ma contano i fatti.

Forse la colpa non è di sta gente ma di chi ne fruisce in maniera sbagliata. E a questo punto però si aprirebbe tutto il discorso del “ma allora viviamo in una società di merda, perché oggi è l’era del vogliamo tutto subito”. Ma cosa possiamo fare davanti ai tempi che cambiano? Niente.

In molte interviste ti hanno chiesto i dischi con cui sei cresciuto e che hanno influenzato il tuo percorso personale e artistico. Puoi farmi invece un elenco di due o tre dischi usciti da poco, che reputi di livello assoluto e che, a tuo parere, potrebbero/dovrebbero influenzare il percorso artistico delle generazioni future?

Mi sento in dovere morale e etico di dover citare il disco degli A Tribe Called Quest del 2016 (We Got It from Here… Thank You 4 Your Service) e il disco dei De La Soul (And the Anonymous Nobody…). Questi due dischi rappresentano in pieno la contraddizione di tutti i nostri discorsi precedenti. Sono due dischi di gruppi incredibilmente old school, che hanno saputo evolversi a loro modo, senza minimamente dover pensare o sentirsi obbligati di dover fare qualcosa che sia in linea con quello che va in questo momento. Sono iper-classici ma contemporanei. I De La Soul hanno tirato su una cosa come 300mila dollari con un crowdfunding: sono esempi incredibili di cosa significhi avere una linea da seguire, un obiettivo, un certo tipo di lungimiranza ma soprattutto una coerenza nel tempo. Questi gruppi dovrebbero far capire a tutte le generazioni di adesso che non è detto che tu debba avere tutto e subito: è un cazzo di percorso.

Domanda sempre ostica, in qualsiasi contesto: ma le donne, dove sono?

Ai miei concerti? [ride] Ai miei concerti non esistono.

Nella scena rap invece, in questo momento non ci sono perché, mi spiace dirlo, non ci sono cose di livello. Non è assolutamente vero che c’è misoginia nei confronti delle donne nel rap: ci vogliono solo le robe fatte in una determinata maniera. Loop Loona per esempio ha fatto cose interessanti in passato; anche Baby K ai tempi spaccava, poi non so se qualcuno le scriveva i testi, ma le robe che faceva Claudia, dieci anni fa, quando era appena arrivata a Milano, erano davvero forti, poi ha fatto il suo percorso. Ci sono ragazze che hanno la fotta giusta, per esempio c’è Mc Nill che rappa molto bene, a Bologna: però ci vuole più roba, più qualità e più sostanza. In Inghilterra, in Germania, in Francia, per non parlare poi di oltreoceano, quelle spaccano e punto.

Il mio invito è: ragazze, nel rap nessuno ce l’ha con voi, se c’è tanto maschilismo voi metteteci tanto femminismo, con l’originalità, con le punchlines, con le barre sempre chiuse e secondo me le cose si evolveranno. E’ questione di tempo.

Anche in questi anni, dal punto di vista delle etnie, le cose stanno cambiando: a breve secondo me arriverà un ragazzo di colore che rapperà come Nas. Ora i tempi sono più maturi, adesso ci sono dei ragazzi egiziani, eritrei, figli di immigrati di seconda e terza generazione che hanno delle cose da dire, e le dicono bene. Uno dei primi in questo senso fu Inoki a Bologna, con tutta la balotta della PMC.

O sei capace o no. Se non ottieni risultati forse non hai le skills, punto.

Fare rap non è obbligatorio. Grazie. Ti senti anche di confermare e accreditare l’ipotesi che, nel caso lo si decidesse di fare, è possibile farlo anche senza sneakers nuove?

Assolutamente. [Ride] Per fortuna sta finendo questa roba delle scarpe. Ma cosa ti posso dire Gina, siamo nella capitale del poserismo italiano e quindi con gli anni sono arrivato alla conclusione che queste cose, in un certo verso, caratterizzano anche le diverse scene, quindi è giusto che Milano sia la capitale del fashion rap, perché se non è Milano dove c’è la settimana della moda, i navigli e i locali vari, allora dove?

It’s part of the game, e uno deve solo capire con cognizione di causa da che parte stare. Una volta che l’hai capito te la vivi bene.

Io ci ho messo un po’ di anni per esempio. Ora ho uno spirito purista che mi piace ancora buttare fuori quando davvero ne vale la pena, ma d’altronde mi compravo le Jordan per giocare a pallacanestro, le Uptempo di moda quest’anno, erano le Pippen uscite per le Olimpiadi di Atlanta ’96. Io giocavo a basket, seguivo di brutto l’NBA e le mettevo in partita o per allenarmi.

E’ sempre tutto collegato alle mode e ai trend, purtroppo o per fortuna, tutto fa parte del gioco.

Gina Ginetti

L’insostenibile eleganza dell’essere Veyl

Ho incontrato Veyl, che nel mondo degli umani qualsiasi chiamano Viola d’Acquarone. Veyl è autrice di Ayorama il suo primo ep prodotto da Elastica Records, tra tastiere, theremin e una voce lieve da cantastorie minore, di quelli che nel falò stanno nell’angolino ma una volta interpellanti, ti conducono per mano tra le virgole delle leggende migliori. La musica di Veyl è un abisso di quiete apparente. Il suo essere etereo, misurato, è parte di un’estetica sottile che veste un contenuto emotivo forte e acquista ancora più valore nel tempo della veemenza, dell’urgenza espressiva. Veyl bisbiglia, non urla.

Un velo di Pandora sottende ad un cielo del nero più nero, non terrificante ne pretenzioso.

Veyl, chi si nasconde dietro questa identità artistica?

Sono Viola d’Acquarone. Lavoro in una casa discografica, un universo abbastanza lontano dalla mia musica. Sono product manger. La mia storia inizia da un pianoforte che ho cominciato a suonare da bambina. Prosegue al conservatorio prendendo lezioni da privatista. Insomma, la mia è una preparazione classica. In adolescenza, la mia metamorfosi mi ha portato prima verso le tastiere che ho suonato in varie band per poi avvicinarmi al sintetizzatore. Uno dei progetti a cui ho lavorato è stato Nuvole Notturne, album d’esordio dei nihil est. Questa è anche la prima esperienza che mi ha davvero avvicinato all’elettronica, dal vivo usavo il pc oltre a tastiere e pianoforte. Per ora il progetto è in stand-by.

Cosa ti ha portato dai gruppi ad una svolta solista?

Durante l’università ho suonato in formazioni piuttosto numerose, anche come turnista in altri gruppi. Ho sentito l’esigenza espressiva di fare qualcosa di mio e anche di modificare l’approccio alla creazione, adattandola a tempistiche più elastiche. L’ep è stato per lungo tempo in gestazione, la genesi risale al 2012. Sono stati anni di formazione. Suonavo elettronica dal vivo ma non conoscevo a fondo i processi sottesi alla produzione. Al principio del 2012 ho collaborato con Emilio Pozzolini dei port-royal, per una traccia che è presente nel loro ultimo album, Where Are You Now. Sapevo di aver tanto da imparare da lui. Sono partita con molto entusiasmo ma il supporto di una persona con alle spalle dell’esperienza è stato fondamentale, mi ha aiutata a superare le insicurezze iniziali. In principio ho lavorato da sola alle produzione, in una fase successiva, di revisione mi sono confrontata con Emilio. Inevitabilmente, con il tempo sono diventata più consapevole, ho acquisito un certo metodo, ed ora che il progetto è uscito alla luce del sole, spero di non perdermi in tempi biblici anche per il prossimo album.

La tua musica oscilla tra due piani: analogico e elettronico…

Non favorisco un approccio in particolare. Certo, il mio punto di partenza è l’elettronica, tuttavia la creazione dei miei pezzi, così come la scelta della strumentazione, non segue un percorso definito. Posso partire da una suggestione sonora, dall’idea di un testo o porgendo l’orecchio a determinati pensieri che mi porto dentro. La musica è soprattutto esorcizzazione di un demone, di paure, incertezze.

Il vocale e le parole hanno una certa incisività nella tua arte. Donano un’impronta emotiva ad un genere troppo spesso accusato di impersonalità.

Inizialmente non volevo cantare, mi ha convinto Emilio. E certo, i testi hanno un certo valore per me, possono parere a tratti ermetici e nonostante la loro brevità portano tutto un carico di emotività personale. In particolare Dirty Car. È stato un percorso in un certo senso catartico per liberare qualcosa di estremamente soggettivo. Se il messaggio non arriva direttamente, rimane fondamentale proiettare una certa atmosfera, un sentore che l’ascoltatore può rendere suo, plasmare alla sua esperienza.

Quanto conta il visual nella fruizione della tua musica?

Tutta la parte visiva è merito di Alessandro Arcidiacono. Io e Ale siamo amici di lunga data, la nostra estetica è compatibile. Avevamo un’idea in testa comune. Mi conosce, ha seguito il progetto dagli esordi. Non è una cosa studiata a tavolino. È una giusta mediazione tra il mio modo di essere ed il gusto contemporaneo.

Aldilà della mediazione, quali sono i colori di Veyl?

Io parto sempre dalla musica, personalmente ho sempre avuto un’idea oscura, cupa di me. Il mio colore è il nero di un viaggio nello spazio, nel vuoto. In questo Ale mi ha molto aiutato, l’ha interpretato in maniera diversa ma altrettanto compatibile con colori molto accesi che rimangono sobri, eterei.

Quindi diciamolo, tu sei più nera che azzurrina…

Mmm…lunare, direi.

Il panorama italiano sembra diviso da una falda incolmabile, tra un underground sempre più di qualità che fatica ad uscire dal suo cassettino celato ai più.

L’Italia si porta alle spalle una tradizione molto pesante da cui fa molta fatica a liberarsi, a livello di forma mentis e approccio all’ ascolto. Anche nei giovani c’è tanta voglia di fare, purtroppo alle volte si traduce in una tendenza ad imitare, reinterpretare quello che panorami più vivaci offrono: dall’Inghilterra, alla Svezia, ai paesi nordici in generale.

Dal mio punto di vista, negli ultimi anni, la scena elettronica italiana è stata animata da un’inversione di tendenza. Fresche novità nate da proposte genuine e molto esportabili.

Ovviamente, il panorama anglosassone rimane incomparabilmente fluido, c’è molta più contaminazione tra generi. Mi viene in mente un James Blake che collabora con Beyoncé. In Italia è molto difficile che questo possa accadere, almeno non nel futuro imminente.

C’è molta diffidenza tra questi due mondi, il mainstream/pop e lo sperimentale, tra cui mi sembra anche abbastanza sciocco tracciare una linea netta di separazione così approssimativa, nonostante il panorama attuale possa suggerire che non ci sia contatto tra queste realtà.

Vero è che, in Italia, quando un artista tenta di superare i propri limiti di genere, mettere un passo in uno di quei mondi confinanti, spesso deve attendere un certo tempo prima che la natura del suo progetto venga compresa. E così ci sono casi come quello dei port-royal che, sono apprezzati in Italia, ma ancora di più all’estero, sopratutto in Europa dell’Est.

Di Giulia Solari.

A Safe Shelter, un porto sicuro dai confini aperti

Chi c’è dietro A Safe Shelter?

Dietro A Safe Shelter ci sono solo io: Simone Zagari, 25 anni. Non ho studiato musica, sono laureato in Lingue e lavoro in un ufficio. A dirla tutta, la musica mi accompagna da quando ho 12 anni. Il primo approccio è stato un classicone: lezioni di chitarra. Dopo tre anni ho mollato tutto per ricominciare da autodidatta. Mentre i miei gusti maturavano, ho cominciato ad approcciarmi ai software di produzione elettronica, creando all’inizio per gioco. Devo dire che comunque, non ho mai pensato: ecco, adesso metto in piedi questo progetto. Al contrario, è stata una genesi abbastanza naturale, scaturita da un’esigenza espressiva personale più che per un pubblico ideale o per sfondare.

A Safe Shelter mi pare un alter ego un pò criptico. Ascoltando On a Quest non mi sono sentita sempre a casa, anzi piuttosto in un viaggio di scoperta e smarrimento, sopratutto in pezzi come Paralysis

Paralysis è una parentesi particolare perchè dopo aver pubblicato i primi pezzi, mi è stato richiesto dalla mia etichetta (Sherpa Records) di pensare a dei pezzi per un ep…A tre mesi dalla prevista data di pubblicazione non mi piaceva assolutamente niente di tutto quello che avevo creato, e devo ammettere che questo atto di rinnegazione è una costante nel mio percorso. Con la mia chitarra, sono ripartito dal momento paralizzante del: “Oddio-mancano-tre-mesi-e-devo-rifare-tutto”, perchè Paralysis è composta interamente con la chitarra anche se non si sente.

Negli anni la mia musica è diventata il mio rifugio sicuro.

Tornare prima da scuola, poi dall’università ed ora dal lavoro, attaccare i jack, le macchine con leggerezza senza pensare devo produrre un pezzo, un album. Costruire un regno in primis per me, senza la pretesa che sia significante per gli altri, se poi lo diventa, tanto meglio.

On a Quest, è un album da cameretta, molto introspettivo. L’ispirazione è scaturita da un momento particolare?

In realtà non c’è un occasione singola ma un accumulo di esperienze. Lo stesso titolo non indica nulla di chiuso, circoscritto. Per esempio tra pezzi come Paralysis e Voices c’è una differenza abissale. Non ho definito il mio suono, volutamente, ci sono pezzi statici, altri con la cassa dritta, qualcuno più ballabile: la quadratura del cerchio arriva dopo, non mi pongo paletti.

On a Quest è un percorso di ricerca, per formarsi musicalmente e umanamente. Come comunica la copertina, una statua con una sciarpa abbandonata sulle spalle, in un cantiere di una fontana in costruzione, immersa in un contesto ordinato e finito.

Come descriveresti il mondo di questo viaggio musicale?

Beh, direi un universo abbastanza incerto, dai confini indefiniti ma non per forza negativo. Ci sono brani più cupi ma non sono messi agli estremi dell’ ep, a termine del viaggio. Per me la fine deve essere aperta. Per esempio, Divenire I, Divenire II  aprono un cerchio che si completa con le altre tracce per chiudersi con Divenire III. In realtà, lo stesso concetto di divenire rimanda ad una prospettiva ampia, aperta di evoluzione e positività. Così come i confini non si limitano ai quattro muri di una cameretta, la musica nasce lì e lentamente evade, si espande all’esterno.

Paris Everywhere è un brano crepuscolare, meditativo…

Passeggiando per il quartiere ebraico di Parigi, mi sono trovato in una chiesa. Il sole stava tramontando. La messa era appena finita, la folla stava abbandonando i banchi ma l’organista è andato avanti a suonare. L’ho registrato e campionato a casa alcuni fraseggi, per poi stravolgerli e dar vita alla traccia. Ciò che rimane è l’atmosfera, la luce che sta svanendo e questo senso di pace e insicurezza che trasmette una chiesa vuota.

Io registro tutto, dalle voci per strada,ai passi, ai rumori della città.

Qualche mese fa, sono stato ricoverato e Aspetic ha la sua genesi proprio nei rumori, nel clima ospedaliero.

Spesso l’elettronica viene accusata di essere impersonale, partire da suoni della mia esperienza è il mio modo per donarle umanità, è un fermo immagine sonoro che da valore al momento anche più banale o minuscolo.

Come nasce il sodalizio con Omake per il pezzo Deer/ The Hunter?

Omake era già uscito con un singolo per Sherpa Records e aveva praticamente finito il suo disco. Un giorno mi ha scritto, aveva sentito i miei pezzi e apprezzato le atmosfere ambient. Così mi ha passato la sua traccia chitarra e voce, pensando che potessi dargli qualcosa in più e così ho superato il momento iniziale da: “Oddio sei sicuro?” e ho lavorato su pad atmosferici, campionatura della voce. Da lì siamo diventati amici. Sembrava soddisfatto: ha realizzato anche un video.

Di Giulia Solari.

MUSICA DA CAMERA VOL. III

copertina-a-safe-shelter

MUSICA DA CAMERA VOL. III // A SAFE SHELTER + FFTS

10.12.16 @ Circolo Gagarin // Busto Arsizio (VA)

░ A Safe Shelter è un progetto elettronico che vede la luce tanti anni fa, inizialmente senza consapevolezza. Nasce infatti come esigenza di avere un’ancora di salvezza in provincia, un mezzo per esprimere se stessi all’interno di quattro mura. La musica vissuta come privata certezza, come un rifugio sicuro, appunto.

A Safe Shelter rimane ora sospeso in statiche atmosfere ambient, ora entra in oscuri club per far danzare. A far da collante ci sono chitarre, sintetizzatori, field recording registrati chissà dove.

A Safe Shelter esce dalla propria stanza, mantenendo però sempre l’urgenza artistica originaria.

FFTS è un duo di Vjs formato da Giovanni Pierbon e Samuele Pagani

FFTS propone per Musica da camera COMPOSIZIONE02.

Composizione02 spazia dalla grafica bidimensionale a quella tridimensionale fusa in un’atmosfera cupa e riflessiva dalle sonorità drone ambient. Per Musica da Camera, Composizione02 verrà accompagnata dalla musica di Nicolò Cervello.

Sintesi video in tempo reale ed estetica connessa al media computazionale, tra arte cinetica e digitale.

Il processo è il risultato: Taggla e Iulia Radu

Il Taggla di Iulia Radu è una ricerca audio-visiva: elementi generativi e musica elettronica in tempo reale.

Una scommessa che vince, dopo Postscreen 2015  alla Fabbrica del Vapore, e una capatina ai live visuals di Brera Accademia Aperta, accompagnata da Domiziano Maselli, si catapulta oltre confine planando allo Schmiede di Hallein in Austria dove collabora con Patrick Gutensohn e Clara Fruhwirth.

Per Musica da Camera, Taggla verrà accompagnata dalla musica di Nicolò Cervello.

Raccontami un po’ del tuo background. C’è stato un momento decisivo in cui hai scelto di seguire l’arte come principale tirante della tua vita?

Ho sempre amato disegnare pur patendo il fatto di non essere all’altezza di persone con una mano migliore della mia. L’inizio del corso di Nuove Tecnologie dell’Arte dell’Accademia di Brera è stato decisamente il momento esatto in cui ho capito di poter dare e fare ciò che più mi rappresentava. Scoprire altri mezzi per fare arte mi ha dato la possibilità di sperimentare a tutto tondo.

Frequenti quindi Brera. Quali sono le maggiori differenze che vedi tra la tua espressività creativa e quella di pittori/scultori, i tipici da mani in pasta?

Ho frequentato il liceo artistico quindi anche io ho delle basi tradizionali.
A differenza della pittura e della scultura, i nuovi media mi danno più libertà e per quanto mi riguarda anche più soddisfazioni personali.

Credo che pittori e scultori siano molto più interessati al prodotto finito. Nel mio campo il processo e il risultato coincidono, si influenzano a vicenda. Non è un sistema chiuso ma un feedback continuo

La grafica in tempo reale è in costante evoluzione e cambiamento: ogni volta che faccio partire Taggla ho output diversi. I colori e i movimenti dei nastri cambiano. Nessuna performance è uguale a quella precedente.

Se potessi scegliere senza paletti, con quale musicista desidereresti collaborare nella tua carriera e perché?

Sono chiaramente aperta a qualsiasi tipo di collaborazione e sperimentazione artistica affinché aiutino la mia crescita. Esistono persone che ammiro e seguo nel mondo dell’arte e della musica ma non mi sono mai fissata un obbiettivo collaborativo.

Penso che Thom Yorke potrebbe essere il primo sulla lista. Aggiungerei anche Hauschka e Ben Frost.

Hai un’estetica ben definita e peculiare, chi pensi ti abbia influenzato di più nel costruirla?

Ho sempre preferito le espressioni artistiche più astratte che danno spazio al maggior numero di interpretazioni possibili. Ricevo molti stimoli dagli artisti che seguo e le influenze direi che variano in base ai medium che decido di usare per i vari progetti. Per l’arte generativa Eno Henze, Andreas Nicolas Fischer, Memo Akten e studio come Onformative e Universal Everything sono le mie ispirazioni principali.

I colori di Iulia: utilizzi una palette definita, hai un particolare punto di riferimento per ottenere il risultato perfetto?

Per comodità ho delle palette già definite che utilizzo, ma sono attenta anche alle tendenze del momento, dal mondo del graphic design a quello della moda. L’obiettivo è suscitare emozioni, di qualsiasi tipo: grazie al colore, sì, ma soprattutto attraverso le scelte di interazione che ho con il mio programma durante la performance.

In Taggla, la tua ultima performance presentata al Gagarin pochi giorni fa, le tue immagini danzano sulla musica di Nicolò Cervello. Come funziona il vostro rapporto artistico, chi segue chi?

La performance al Gagarin è stata la nostra prima esibizione insieme. Io e Nicolò siamo amici e compagni di corso: artisticamente siamo cresciuti insieme. Abbiamo percorsi e interessi molto simili di conseguenza ci viene molto facile sincronizzarci e completarci a vicenda.

Per me è importante avere un continuo feedback tra me e l’altro performer, uno stimolo reciproco ininterrotto: da una parte io che seguo l’andamento musicale facendo da tramite fra suono e immagine, dall’altra le emozioni che i miei visuals suscitano dentro colui che suona.

Ma poi, Taggla, cosa significa per te?

Taggla è nata come una ricerca personale che piano piano si è materializzata in una vera e propria performance audiovisiva. Inizialmente stavo sperimentando con diverse forme tridimensionali e come esse possano cambiare e muoversi dentro uno spazio. Per me i nastri si sono dimostrati il metodo espressivo migliore e, per enfatizzare ancora di più l’effetto di groviglio (da qui il nome Taggla), ho deciso di moltiplicarli. Ulteriormente mi sono dedicata all’interazione tra me e il contenuto.

Durante la performance cerco sempre di presentare una storia che parte dal nero, dal nulla, con poi le forme che piano piano si allungano per poi aggrovigliarsi e alla fine ritornare al punto d’origine.

Molti mi hanno detto che i nastri hanno qualcosa di festivo, di gioioso. Per me che le controllo, hanno anche un effetto riflessivo.

Quali sono le sensazioni che deciderai di esplorare nel prossimo lavoro e sulle quali vorresti trasportare il pubblico?

Vorrei sperimentare con altre forme e interazioni differenti, tenendo sempre in considerazione il rapporto tra suono e immagine generativa ad esso legata. Mi piacerebbe portare la mia ricerca un po’ fuori dalla mia comfort zone come ad esempio nel campo della scenografia. Ma non si può mai sapere dove ti porti la strada.

Alice Lamperti

cropped-airdeprofiloblack1.jpg

L’universo rampicante di TECHNOIR

Jennifer Villa+ Alexandro Phoenix = TECHNOIR

Attivi dal 2014 con base a Milano.

Il loro suono è una pozione afrodisiaca: una piuma della black music più raffinata, su una base di elettronica, pizzichi di neo soul, aroma R’n’B, che ardono sulla fiamma di un jazz verecondo e pulito, e un hip hop lontano dall’ostentazione modaiola. Il futuro è prossimo, i confini melliflui.

Il divagare di una contemporanea Alice in Wonderland in una caldissima Porta Venezia più esoticamente alberata, ci piace immaginarcelo così. NeMui (New Ecosystem Musically Improved) è il loro ultimo progetto in uscita per Cane Nero Records, composto da tre 3 EP che a Gennaio 2017 daranno vita all’album d’esordio.

Parliamo un po’ delle origini… Di dove siete? Come vi siete conosciuti? Come è nato il progetto?

AL. Siamo cresciuti a Genova che sai, è un posto piccolo. Si frequentano gli stessi locali e salette ma viviamo da un anno ormai a Milano, dal momento che abbiamo deciso di puntare tutto sulla musica…

J. Sì, Genova è stato il crocevia ma io sono metà ganese, metà nigeriana, mentre Ale è greco-pugliese.

AL. Abbiamo suonato insieme anche in altre band, una in particolare è ancora attiva, Audiograffiti. Technoir nasce da una virata spontanea verso l’elettronica.

J. La scelta di un duo è stata in primis una questione di bisogni perché, in quanto band che parte da Genova, è difficile trovare ingaggi che coprano i costi di tutto l’organico.

AL. Una necessità che si è trasformata in una vera e propria passione per i computer.

Perché avete optato per questa pubblicazione trifasica?

AL. Abbiamo intrapreso il percorso opposto rispetto alla discografia tradizionale, prima abbiamo pubblicato digitalmente, in tre fasi, il nostro album di debutto che uscirà a Gennaio 2017, composto dalle 9 tracce di NeMui (vol. 1, 2 e il 3 in uscita a Dicembre 2016) più tre inediti. Diciamo che quando la nostra etichetta, Wasabi produzioni, ora Cane Nero ci ha proposto questa modalità abbiamo accettato di buon grado.

Era da tempo che cercavamo un format di pubblicazione che si discostasse da quello standard. Per consolidare la distribuzione di un disco tradizionale l’iter promozionale deve essere potente, da artisti indipendenti non abbiamo alle spalle nessuna macchina propulsiva.

J. C’è anche una ragione di tempistiche dietro, in una quotidianità sempre più dinamica, il frazionamento dei pezzi permette un ascolto più attento.

Il vostro sito è molto forestoso, verde, ci sono le istruzioni su come crescere questa pianta grassa Lithops…

J. Volevamo capire come distribuire questo ep digitale durante le date, come portarlo in giro senza lasciarlo nell’etere. Siamo partiti dal presupposto che la nostra musica non è nè pura elettronica tantomeno puro jazz e soul, è un ibrido. Inoltre gli ep si intitolano New Ecosystem Musically Improved, abbiamo deciso di portare nel mondo reale un souvenir di questo universo con piante rampicanti, schermi e cavi che abita la nostra fantasia.

AL. Il Lithops stesso è un ibrido, una pianta grassa con le sembianze di pietra da cui cresce un unico fiore dopo molto tempo, come la nostra musica e la nostra filosofia, tra amore per la tecnologia e una forza ancestrale che ci guida.

Nella scatolina trasparente sono contenuti i semi del Nuovo Ecosistema che vorremmo iniziare a coltivare, insieme ad un direct link per scaricare i pezzi.

Nelle lyrics di Sides citate un’entita che trasporta anime, una luce strisciante nel mare…

AL. Il testo di Sides è nato da un’emergenza espressiva concreta, in quel periodo particolare, molti migranti stavano perdendo la vita in mare. Abbiamo sentito il bisogno di veicolare questo dolore, cercando di dare valore a delle vite che, esistono lontane e vicine, aldilà della percezione mediatica distorta.

J. Messaggi di questo tipo possono risultare un pò artificiosi e poco sentiti, per questo non si fa esplicitamente riferimento al tema nel testo, non definiamo questa forza traghettatrice. Per lo stessa ragione non è scritta in prima persona.

In Sides la prospettiva è quella di un’entità sottomarina. Essendo nati in una città di mare, ci capita spesso di osservare imbarcazioni che proiettano ombre e luci che sembrano strisciare sul mare, di notte.

AL. Quest’entità marina osserva le barche scorrere suo malgrado ed ignora il dolore o le motivazioni dei naviganti. Egli è lo spettatore della migrazione, che non è sempre disperata ma a volte è semplicemente un desiderio di cambiamento, di esplorazione.

J. È un brano delicato, a volte decidiamo di non suonarla live se il contesto non è adatto perchè ci sembrerebbe di tradire un certo significato legato anche alla nostra storia.

Anche in Survive mi è parso poteste riferirvi ad una sorta di divinità, un salvatore che parla da un buco stretto e con cui cercate un compromesso…

J + AL. Survive è uno sfogo, alla tracotanza sui social, verso le opinioni non richieste, i moralismi, le maschere. È un moto istintivo contro questo tipo di disordine quindi non hai sbagliato a vederci qualcosa di spirituale.

Se dovessi chiedervi di chiudere gli occhi e dipingere l’universo suggerito dal vostro sound…come sarebbe?di che colori?

AL. Di sicuro sarebbe un universo un pò psichedelico ma tecnologico, sci-fi.

Immaginati un universo in cui possono convivere Björk, Flying Lotus e Miles Davis, Miyazaki e i fumetti di Moebius insieme. Tra il cielo e la terra, con case volanti.

J. Paesaggisticamente vicino al film Aldilà dei sogni.

AL. Di base siamo anche molto appassionati di tecnologia, cerchiamo di farne un uso responsabile. Potenzialmente i computer potrebbero fare tutto, anche senza supporto umano. D’altrocanto questa semplificazione dei processi ha ampliato la produzione e le possibilità di esplorazione musicale. A costo zero, un ragazzino può iniziare a fare musica mentre in passato l’iter era più tortuoso, a partire dalla reperibilità di strumenti, contatti.Certo l’abbassamento dei costi di produzione sta radicalmente trasformando il mercato…

J. Mi piace l’idea di evocare un viaggio, è proprio questo il nostro scopo, aprire una porta che va aldilà dell’ascolto e si spalanca sull’immaginario individuale. Quello che ci immaginiamo è un universo ibrido, il muschio che ricopre cavi rampicanti, pulsanti e schermi in una foresta.

Di Giulia Solari.

MUSICA DA CAMERA VOL. II

locandina

MUSICA DA CAMERA VOL. II // TECHNOIR + IULIA RADU

19.11.16 @ Circolo Gagarin // Busto Arsizio (VA)

TECHNOIR

Sono un duo attivo dal 2014 composto dal chitarrista/producer Alexandros e dalla cantante Jennifer Villa con base a Milano.

Il loro suono è una pozione afrodisiaca: una piuma della black music più raffinata, su una base di elettronica, pizzichi di neo soul, aroma R’n’B, che ardono sulla fiamma di un jazz verecondo e pulito, e un hip hop lontano dall’ostentazione modaiola. Il futuro è prossimo, i confini melliflui.

Il divagare di una contemporanea Alice in Wonderland in una caldissima Porta Venezia, ci piace immaginarcelo così. NeMui (New Ecosystem Musically Improved) è il loro ultimo progetto in uscita per Canenero Records, composto da tre 3P che a Gennaio 2017 daranno vita all’album d’esordio.

IULIA RADU

Il Taggla di Iulia Radu è una ricerca audio-visiva: elementi generativi e musica elettronica in tempo reale. Una scommessa che vince, dopo Postscreen 2015  alla Fabbrica del Vapore, e una capatina ai live visuals di Brera Accademia Aperta, accompagnata da Domiziano Maselli, si catapulta oltre confine planando allo Schmiede di Hallein in Austria dove collabora con Patrick Gutensohn (electronics) e Clara Fruhwirth (violino).Per Musica da Camera, Taggla verrà accompagnata dalla musica di Nicolò Cervello.