Ho incontrato Egreen aka Nicholas Fantini dopo il suo concerto al Circolo Gagarin di Busto Arsizio. Ora vive in un’enorme palazzina di Milano Nord, “un tentativo di Le Corbusier fallimentare”, è caduto in motorino, si è tatuato e mi ha raccontato un po’ di cose sul rap, sul passato, sul futuro e sul suo disco More Hate, che sta ancora portando in giro per tutta Italia, a tutti i FANtini.
A fine gennaio hai portato More Hate al Circolo Gagarin e come tua abitudine hai buttato giù i muri. Come pensi sia andata e come ci si sente a tornare a Busto Arsizio?
Credo sia andata molto bene, soprattutto a livello tecnico, l’impianto al Circolo Gagarin era una bomba. Dietro le quinte di questa intervista non è così scontato trovare una struttura che si presti in maniera professionale al 100% ad un live act di questo tipo, e in questo caso mi sono trovato benissimo. Emotivamente ero molto teso perché Busto, per via dei miei trascorsi adolescenziali, ha rappresentato in diverse sfumature un periodo e un luogo molto formativi, nel bene e nel male. Adesso sono a Milano, alle mie spalle mi sono lasciato tante cose belle ed altre un po’ meno.
Cosa pensi ti abbia dato e cosa tolto il vivere in provincia?
Come l’ha definita un mio caro amico presente al live, Busto è sempre stata ritenuta un po’ da tutti noi che abbiamo sempre fatto scuola tra la provincia e Milano, una sorta di purgatorio. Milano, è una realtà di impatto sotto diversi punti di vista, ma appena ritorni in treno sai di ritrovarti subito in una situazione molto provinciale e chiusa, che se non hai degli obiettivi chiari o diverse aspettative, è molto facile che sia una di quelle realtà che ti risucchiano.
Ho cercato di prendere il meglio dal peggio, per citare i Next Diffusion. Ho preso il meglio da una situazione per la quale tu parti già come uno di quelli che è destinato a fare un cazzo, e so che tu puoi capire esattamente quello che voglio dire.
Per tutti quelli che stanno cercando il proprio posto nel proprio settore, non è stato e non è facile. Non voglio fare il martire, ma la difficoltà era proprio quella: vivere in provincia ma abbastanza vicino per vedere tutto. Di certo ho perso molto dal punto di vista dei rapporti umani, ma per me la priorità è sempre stata il rap: più che la provincia, è forse lui che mi ha tolto molte cose.
Quando giochi in casa, come per la data al Gagarin, c’è sempre quell’atmosfera a metà tra compleanno in famiglia e concerto hardcore. Ma la tua fotta rimane la stessa in tutta Italia. Come è stato agli inizi, affrontare città come Bologna, o Roma, e come le hai conquistate?
Bella domanda. Sono contento che tu me l’abbia fatta perché è una roba alla quale noi che facciamo un rap di un certo tipo teniamo parecchio. La mia vera palestra per questo genere di situazioni è stata sicuramente Milano, il primo impatto forte con il concetto del confrontarsi con gli altri. Una città che nell’ambito del rap, avendo una gran tradizione, non regala niente a nessuno. Ora ho l’onore di fare molti concerti a Milano, la vivo in maniera diversa, è sicuramente la mia data in casa.
Ma mi ricordo le mie prime battles, di quando arrivavi nei posti e ti accoglievano tutti incappucciati a braccia conserte, che li vedevi che erano lì ad aspettare che facevi la cazzata.
Piano piano, sempre con le gare di freestyle, sono andato a battezzarmi da solo nelle varie città pesanti in Italia, che per me sono Milano, Bologna, Torino, Napoli, Roma. Città dove c’è molta aspettativa, proprio perché ci sono state delle scuole che hanno fatto molto. La prima volta che ho suonato a Roma me la ricordo bene, sono andato da Mr. Phil un’estate, pochi giorni dopo ferragosto ed ero davvero tesissimo, perché sentivo il peso di suonare in una città importante che ha fatto molto per il mio genere, ed è qualcosa che incide molto a livello psicologico. Poi ho avuto la fortuna che in tutte queste città ho creato molte connessioni, e ad un certo punto non ci ho neanche più pensato, ma quando sono sul palco non dimentico mai di ricordare che non bisogna mai dare nulla per scontato.
Recentemente, dopo tanti anni, sono finalmente riuscito a suonare a Napoli città. E’ stato molto bello perché c’erano molti colleghi come Speaker Cenzou, c’era Ntò dei Co’Sang, Oyoshe, e quando vedi dei locals che ti vengono a sentire capisci che c’è curiosità, se non rispetto.
Ora me la vivo tranquillamente, forse suono più in queste città che a Milano stessa, ma sono contento che hai tirato fuori questa cosa, perché è sempre utile ricordare, anche a me stesso, di quanto queste scuole di pensiero abbiano fatto in Italia, di quanto sia giusto onorarle e quanto sia piacevole che tu venga onorato, perché non è per niente scontato, soprattutto al giorno d’oggi.
La prima ondata del rap italiano era per natura molto autoreferenziale e autocelebrativa, spesso per tematiche molto rivolta verso se stessa: forse anche per questo c’era un grande senso di appartenenza alla cultura hip hop, accompagnato ad un atteggiamento molto intransigente nei confronti di chi provava ad approcciarsi al rap come semplice genere musicale o a contaminarlo con sonorità più morbide, estranee da un’ottica hardcore. Ora con lo sdoganamento del rap quale genere popolare, sostituitosi alla musica leggera, si è assistito ad una perdita quasi totale di questo senso di appartenenza. Credi sia un fenomeno di reazione?
Credo che sia una conseguenza. Io considero come prima ondata del rap tutto ciò che è stato fatto dal ’90 al ’96. In quel periodo, sperando di non fare gaffe storiche, il rap era una cosa molto legata a determinati movimenti politici. Le strutture che permettevano di esprimersi erano i centri sociali o spazi autogestiti sul filone sinistra-anarchico. Inequivocabilmente il fatto che questo genere si sia espresso per anni in contenitori di questo tipo non ha potuto fare a meno di essere messo assieme ad un contesto ideologico ben preciso e definito. Sicuramente ci si credeva molto.
Poi c’è stata quella che io definisco la Golden Age italiana, dove è venuta fuori l’Area Cronica con i Sottotono, gli Otierre, sono nate scuole di pensiero completamente slegate dall’ambito politico: qui c’è stato uno sdoganamento del genere ed è qui che è diventato autoreferenziale: c’era chi sosteneva che bisognava fare la lotta e c’era chi diceva “Io sono il vero Hip Hop”.
Il periodo dell’essere real, “io sono vero e tu no”, “tu sei un sucker”, per me è stato il periodo più alto, in assoluto, che ha dato vita a dischi incredibili, partendo da SxM e finito con 107 elementi, o anzi, con La grande truffa del rap: Gente Guasta ha chiuso il periodo più bello. Ad un certo punto Aspettando il sole di Neffa aveva fatto disco d’oro. Una canzone incredibile di un artista hardcore underground, che era riuscito a mischiare musicalità e poesia, diventata popolarissima, e allo stesso tempo c’erano anche i Sottotono che viaggiavano in limousine.
Oggi alla fine rimangono le canzoni, quindi i Sottotono secondo me hanno fatto la storia tanto quanto Neffa e la scuola bolognese. Io, per il mio personale approccio, metto Gruff e Tormento sullo stesso piano, anche se qualcuno forse mi ucciderà.
Comunque, dopo il tracollo di questo genere, Mondo Marcio ha firmato il contratto con una delle più grandi major di quei tempi, con Solo un uomo. E da lì siamo arrivati qui. Siamo nel 2017 e le cose sono cambiate totalmente. C’è un’infinità di gente che fa un milione di views in un attimo, ora tutto è stato sdoganato e non ci sono più paletti di nessun genere: ora non è più una guerra di chi è real e di chi è fake. Ma lasciando perdere l’hype del momento: quante sono le cose che ci riascolteremo tra dieci anni? Il tempo ci dirà cosa è stato fatto bene e cosa no.
More Hate è un inno all’odio, ma un odio diverso da Beats&Hate, forse più maturo e sedimentato. In una recente intervista hai detto tu stesso che non ci sono pezzi come Il Grande Freddo o 26 Dicembre, e pensi che questa cosa possa aver deluso qualcuno. “Però io non è che faccio questi pezzi nei dischi così poi so che c’è il mio pezzo emo. Li faccio quando li sento”. Come ti senti a inizio 2017? Cosa vuoi fare entro il 3016?
[Ride] Vorrei riuscire a fare altri dischi, uno anche quest’anno. Mi sento travolto, penso ai cambiamenti che stanno accadendo in questo momento nel mondo musicale: credo fermamente che l’evoluzione artistica, sotto certi aspetti, sia una cosa necessaria, ma credo anche che a pallacanestro si gioca sempre con una palla rotonda che deve essere messa dentro un cazzo di canestro. Io ho avuto un percorso troppo lungo per provare a fare altro: io so bene cosa faccio, so bene perché lo faccio, quindi ho una presa di coscienza che mi permette di sapere come lo devo fare. Non mi sento in dovere di adeguarmi: è una cosa che accuso ma va bene così.
Il disco e pieno zeppo di richiami e cit dall’east coast, ma anche una serie di featuring e produzioni che lo rendono un progetto particolarmente azzeccato. Er Costa in Milano-Roma pt II, Nex Cassel in Xerox, poi Claver Gold, Attila.. Bene Così e Bataclan insieme a Smooth Operator sono quelle che lasciano di più il segno a mio avviso…
A me piace molto Meglio di scopare, il beat di Fid Mella è una bomba, in sostanza è il classico pezzo da battaglia di Egreen: strofa, ritornello scratchato, strofa. Però sono molto legato a tutti i pezzi che hai citato, e soprattutto al pezzo con Attila. E’ la prima volta che faccio una cosa del genere, un po’ fuori, forse, dai miei canoni, ma tengo molto a lui come persona e credo molto in quello che lui fai: è un po’ l’Egreen del reggae, è un fuoriclasse e come ogni fuoriclasse è un po’ un ingestibile, ma quello è il bello dei fantasisti. L’unica cosa che mi fa un po’ paura nel disco è che mi rendo conto che alle volte sono molto pesante. Anche se mi dici di aver apprezzato pezzi come Bataclan e Smooth Operator, una delle critiche che mi sono state fatte in termini professionali è che a volte non c’è struttura nelle cose che scrivo. Ma il mio approccio alla musica è questo: o viene capito o preso come una pecca. Anche Milano-Roma pt. II con Er Costa è un pezzo molto importante e sono contento che il feedback sia stato molto positivo, dato che poteva essere rischioso da un certo punto di vista, perché dico cose abbastanza pesantucce. In ultima analisi difficilmente butto fuori un progetto del quale non sono soddisfatto.
Anche se la scena si sta trasformando sempre più in una sagra, chi reputi stia spingendo nella direzione giusta a livello di emergenti?
Premetto che il filtro che farà la cernita e farà capire a tutti noi chi aveva ragione e chi no sarà solo il tempo. Mi tocca dirti che tutti gli emergenti ora, anche quelli che non apprezzo, lo stanno facendo tutti bene e ti dico anche il perché: le prime nuove realtà esplose l’anno scorso, come Rkomi, Sphera, Tedua, Vegas Jones, a prescindere dai miei gusti, loro stanno facendo esattamente quello che vogliono fare, e hanno avuto successo. Questa cosa poteva essere presa da subito come uno scherzo, una barzelletta, e loro ci avrebbero comunque messo la faccia. Forse una volta non era così, una volta dovevi fare quello che si stava facendo e basta. Per assurdo, anche la Dark Polo Gang: Sick Luke gli manda i beat, loro li ascoltano, si prendono bene e si fanno le loro canzoni.
Adesso sono tutti battitori liberi, non conta il mio parere personale, ma contano i fatti.
Forse la colpa non è di sta gente ma di chi ne fruisce in maniera sbagliata. E a questo punto però si aprirebbe tutto il discorso del “ma allora viviamo in una società di merda, perché oggi è l’era del vogliamo tutto subito”. Ma cosa possiamo fare davanti ai tempi che cambiano? Niente.
In molte interviste ti hanno chiesto i dischi con cui sei cresciuto e che hanno influenzato il tuo percorso personale e artistico. Puoi farmi invece un elenco di due o tre dischi usciti da poco, che reputi di livello assoluto e che, a tuo parere, potrebbero/dovrebbero influenzare il percorso artistico delle generazioni future?
Mi sento in dovere morale e etico di dover citare il disco degli A Tribe Called Quest del 2016 (We Got It from Here… Thank You 4 Your Service) e il disco dei De La Soul (And the Anonymous Nobody…). Questi due dischi rappresentano in pieno la contraddizione di tutti i nostri discorsi precedenti. Sono due dischi di gruppi incredibilmente old school, che hanno saputo evolversi a loro modo, senza minimamente dover pensare o sentirsi obbligati di dover fare qualcosa che sia in linea con quello che va in questo momento. Sono iper-classici ma contemporanei. I De La Soul hanno tirato su una cosa come 300mila dollari con un crowdfunding: sono esempi incredibili di cosa significhi avere una linea da seguire, un obiettivo, un certo tipo di lungimiranza ma soprattutto una coerenza nel tempo. Questi gruppi dovrebbero far capire a tutte le generazioni di adesso che non è detto che tu debba avere tutto e subito: è un cazzo di percorso.
Domanda sempre ostica, in qualsiasi contesto: ma le donne, dove sono?
Ai miei concerti? [ride] Ai miei concerti non esistono.
Nella scena rap invece, in questo momento non ci sono perché, mi spiace dirlo, non ci sono cose di livello. Non è assolutamente vero che c’è misoginia nei confronti delle donne nel rap: ci vogliono solo le robe fatte in una determinata maniera. Loop Loona per esempio ha fatto cose interessanti in passato; anche Baby K ai tempi spaccava, poi non so se qualcuno le scriveva i testi, ma le robe che faceva Claudia, dieci anni fa, quando era appena arrivata a Milano, erano davvero forti, poi ha fatto il suo percorso. Ci sono ragazze che hanno la fotta giusta, per esempio c’è Mc Nill che rappa molto bene, a Bologna: però ci vuole più roba, più qualità e più sostanza. In Inghilterra, in Germania, in Francia, per non parlare poi di oltreoceano, quelle spaccano e punto.
Il mio invito è: ragazze, nel rap nessuno ce l’ha con voi, se c’è tanto maschilismo voi metteteci tanto femminismo, con l’originalità, con le punchlines, con le barre sempre chiuse e secondo me le cose si evolveranno. E’ questione di tempo.
Anche in questi anni, dal punto di vista delle etnie, le cose stanno cambiando: a breve secondo me arriverà un ragazzo di colore che rapperà come Nas. Ora i tempi sono più maturi, adesso ci sono dei ragazzi egiziani, eritrei, figli di immigrati di seconda e terza generazione che hanno delle cose da dire, e le dicono bene. Uno dei primi in questo senso fu Inoki a Bologna, con tutta la balotta della PMC.
O sei capace o no. Se non ottieni risultati forse non hai le skills, punto.
Fare rap non è obbligatorio. Grazie. Ti senti anche di confermare e accreditare l’ipotesi che, nel caso lo si decidesse di fare, è possibile farlo anche senza sneakers nuove?
Assolutamente. [Ride] Per fortuna sta finendo questa roba delle scarpe. Ma cosa ti posso dire Gina, siamo nella capitale del poserismo italiano e quindi con gli anni sono arrivato alla conclusione che queste cose, in un certo verso, caratterizzano anche le diverse scene, quindi è giusto che Milano sia la capitale del fashion rap, perché se non è Milano dove c’è la settimana della moda, i navigli e i locali vari, allora dove?
It’s part of the game, e uno deve solo capire con cognizione di causa da che parte stare. Una volta che l’hai capito te la vivi bene.
Io ci ho messo un po’ di anni per esempio. Ora ho uno spirito purista che mi piace ancora buttare fuori quando davvero ne vale la pena, ma d’altronde mi compravo le Jordan per giocare a pallacanestro, le Uptempo di moda quest’anno, erano le Pippen uscite per le Olimpiadi di Atlanta ’96. Io giocavo a basket, seguivo di brutto l’NBA e le mettevo in partita o per allenarmi.
E’ sempre tutto collegato alle mode e ai trend, purtroppo o per fortuna, tutto fa parte del gioco.
Gina Ginetti