FFTS: istantanea disturbata

Ai tempi del 2.0 la soglia d’attenzione standard gioca a calcio saponato ai limiti di un burrone. In questo panorama, veicolare un messaggio diventa una questione di simultaneità sopratutto a livello di amusement, ci stiamo abituando a fruire di beat, frazioni artistiche eterogenee, che stuzzicano il gusto senza suggerire il nome del piatto, dandoci la possibilità di immaginare da che tipo di torta stiamo attingendo, in realtà senza vederla ne mangiarla davvero. In questo contesto l’esperienza sensoriale è istantanea ma permeante. Non si divora più la musica, la performance con ingordigia, la si assapora a stomaco vuoto. La performance di FFTS è questo, un buffet minimalista con punte di amaro, piccante e acido. Godibilissimo.

FFT è un algoritmo che analizza il suono, che utilizziamo molto per rendere le nostre animazioni reattive agli impulsi sonori. FFT più la S finale dato che siamo due.

Una performance a tratti disturbante, colonne di pixel che si scontrano, gomitoli geometrici di fili intricati. Il nero più nero. Da profana, quanto concordate sulla percezione che il vostro lavoro porti verso un’introspezione tormentata più che verso una contemplazione, un ascolto asettici?

La nostra performance, da un punto di vista audio/visivo, è ideata per far sì che lo spettatore non si accomodi sul suo feeling iniziale ma sia protagonista di un viaggio scomodo, fatto di sbalzi e curve tortuose. Ad un’estetica varia e d’impatto abbiniamo un sound deciso, a tratti ossessivo che mira ad infastidire, a turbare a tal punto da far insorgere un senso di sottomissione nell’interlocutore muto, imprigionato in una stanza.

Da cosa traete ispirazione per le performance? Rumori urbani, esperienze, sentimenti personali?

Samuele:

È quasi impossibile individuare un’unica fonte di ispirazione/derivazione estetica; qualsiasi spunto è valido ed entra naturalmente nel soggettivo della creazione: dai lavori dei grandi artisti, ai videoclip musicali, alle mostre che ho visitato, alla grafica tradizionale.  Certamente la mia formazione accademica, in un istituto d’arte a indirizzo grafica,  influenza le mie scelte stilistiche ed estetiche, che sono legate ai miei lavori creativi in senso lato, da sempre. Sto lavorando ad una mia cifra stilistica per la parte sonora, tentando di immergermi più nel “campo”, specializzarmi, per il momento il sound è affidato all’orecchio sopraffino del mio amico Nicolò Cervello.

Giovanni:

L’ispirazione mi può colpire in qualsiasi momento della giornata, spesso dietro a quello che faccio c’è un’attenta osservazione dell’ambiente urbano che mi circonda. Mi capita molte volte di stare ad osservare gli schermi delle stazioni, molti, per la poca manutenzione sono come bloccati in un altro tempo, generando una serie di disturbi grafici fantastici. L’idea può sorgere dalla struttura di un ambiente fatiscente, dalle crepe dell’asfalto, dalla casualità con la quale viene ammassata la spazzatura nella mia via di casa, dalle feste.

Quanto credete che questo genere di performance siano specchio di una generazione? sempre per i profani, esiste un gruppo di riferimento, una sorta di “manifesto artistico” (anche sotteso) che traccia le linee di questa estetica?

Questo genere di performance non lo vediamo legato ad una generazione in particolare, almeno in Italia. Il punto di riferimento è tutto il filone della grafica generativa e la produzione di animazioni in real time con contaminazioni glitch. Siamo dell’idea che non ci sia un genere ben definito, quello che ci piacerebbe fare sarebbe abituare il pubblico a esperienze nuove, spaziare dalla semplice idea di visual inteso come sfondo di una serata musicale e arrivare ad un ibrido dal sapore installativo e performativo. Un gruppo di riferimento per quanto riguarda l’Italia è il collettivo Otolab, vicino all’idea di performance che intendiamo. Più che manifesto artistico esiste un’estetica da cui trascende tutto un genere che è quello dettato dai canoni di artisti di grosso calibro come Alva Noto o Rioji Ikeda.

Chi siete in un’immagine?

Se dovessimo definirci con una figura retorica saremmo contemporaneamente la calma dopo la tempesta e la tempesta prima della calma. Quello che cerchiamo di fare è catapultare lo spettatore in una situazione psico-fisica altalenante, il bianco che si scontra con il nero, suoni distesi e ritmi martellanti, illusioni spaziali che compongono l’ambiente bio-meccanico in cui viviamo.

Di Giulia Solari.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: