Ho incontrato Veyl, che nel mondo degli umani qualsiasi chiamano Viola d’Acquarone. Veyl è autrice di Ayorama il suo primo ep prodotto da Elastica Records, tra tastiere, theremin e una voce lieve da cantastorie minore, di quelli che nel falò stanno nell’angolino ma una volta interpellanti, ti conducono per mano tra le virgole delle leggende migliori. La musica di Veyl è un abisso di quiete apparente. Il suo essere etereo, misurato, è parte di un’estetica sottile che veste un contenuto emotivo forte e acquista ancora più valore nel tempo della veemenza, dell’urgenza espressiva. Veyl bisbiglia, non urla.
Un velo di Pandora sottende ad un cielo del nero più nero, non terrificante ne pretenzioso.
Veyl, chi si nasconde dietro questa identità artistica?
Sono Viola d’Acquarone. Lavoro in una casa discografica, un universo abbastanza lontano dalla mia musica. Sono product manger. La mia storia inizia da un pianoforte che ho cominciato a suonare da bambina. Prosegue al conservatorio prendendo lezioni da privatista. Insomma, la mia è una preparazione classica. In adolescenza, la mia metamorfosi mi ha portato prima verso le tastiere che ho suonato in varie band per poi avvicinarmi al sintetizzatore. Uno dei progetti a cui ho lavorato è stato Nuvole Notturne, album d’esordio dei nihil est. Questa è anche la prima esperienza che mi ha davvero avvicinato all’elettronica, dal vivo usavo il pc oltre a tastiere e pianoforte. Per ora il progetto è in stand-by.
Cosa ti ha portato dai gruppi ad una svolta solista?
Durante l’università ho suonato in formazioni piuttosto numerose, anche come turnista in altri gruppi. Ho sentito l’esigenza espressiva di fare qualcosa di mio e anche di modificare l’approccio alla creazione, adattandola a tempistiche più elastiche. L’ep è stato per lungo tempo in gestazione, la genesi risale al 2012. Sono stati anni di formazione. Suonavo elettronica dal vivo ma non conoscevo a fondo i processi sottesi alla produzione. Al principio del 2012 ho collaborato con Emilio Pozzolini dei port-royal, per una traccia che è presente nel loro ultimo album, Where Are You Now. Sapevo di aver tanto da imparare da lui. Sono partita con molto entusiasmo ma il supporto di una persona con alle spalle dell’esperienza è stato fondamentale, mi ha aiutata a superare le insicurezze iniziali. In principio ho lavorato da sola alle produzione, in una fase successiva, di revisione mi sono confrontata con Emilio. Inevitabilmente, con il tempo sono diventata più consapevole, ho acquisito un certo metodo, ed ora che il progetto è uscito alla luce del sole, spero di non perdermi in tempi biblici anche per il prossimo album.
La tua musica oscilla tra due piani: analogico e elettronico…
Non favorisco un approccio in particolare. Certo, il mio punto di partenza è l’elettronica, tuttavia la creazione dei miei pezzi, così come la scelta della strumentazione, non segue un percorso definito. Posso partire da una suggestione sonora, dall’idea di un testo o porgendo l’orecchio a determinati pensieri che mi porto dentro. La musica è soprattutto esorcizzazione di un demone, di paure, incertezze.
Il vocale e le parole hanno una certa incisività nella tua arte. Donano un’impronta emotiva ad un genere troppo spesso accusato di impersonalità.
Inizialmente non volevo cantare, mi ha convinto Emilio. E certo, i testi hanno un certo valore per me, possono parere a tratti ermetici e nonostante la loro brevità portano tutto un carico di emotività personale. In particolare Dirty Car. È stato un percorso in un certo senso catartico per liberare qualcosa di estremamente soggettivo. Se il messaggio non arriva direttamente, rimane fondamentale proiettare una certa atmosfera, un sentore che l’ascoltatore può rendere suo, plasmare alla sua esperienza.
Quanto conta il visual nella fruizione della tua musica?
Tutta la parte visiva è merito di Alessandro Arcidiacono. Io e Ale siamo amici di lunga data, la nostra estetica è compatibile. Avevamo un’idea in testa comune. Mi conosce, ha seguito il progetto dagli esordi. Non è una cosa studiata a tavolino. È una giusta mediazione tra il mio modo di essere ed il gusto contemporaneo.
Aldilà della mediazione, quali sono i colori di Veyl?
Io parto sempre dalla musica, personalmente ho sempre avuto un’idea oscura, cupa di me. Il mio colore è il nero di un viaggio nello spazio, nel vuoto. In questo Ale mi ha molto aiutato, l’ha interpretato in maniera diversa ma altrettanto compatibile con colori molto accesi che rimangono sobri, eterei.
Quindi diciamolo, tu sei più nera che azzurrina…
Mmm…lunare, direi.
Il panorama italiano sembra diviso da una falda incolmabile, tra un underground sempre più di qualità che fatica ad uscire dal suo cassettino celato ai più.
L’Italia si porta alle spalle una tradizione molto pesante da cui fa molta fatica a liberarsi, a livello di forma mentis e approccio all’ ascolto. Anche nei giovani c’è tanta voglia di fare, purtroppo alle volte si traduce in una tendenza ad imitare, reinterpretare quello che panorami più vivaci offrono: dall’Inghilterra, alla Svezia, ai paesi nordici in generale.
Dal mio punto di vista, negli ultimi anni, la scena elettronica italiana è stata animata da un’inversione di tendenza. Fresche novità nate da proposte genuine e molto esportabili.
Ovviamente, il panorama anglosassone rimane incomparabilmente fluido, c’è molta più contaminazione tra generi. Mi viene in mente un James Blake che collabora con Beyoncé. In Italia è molto difficile che questo possa accadere, almeno non nel futuro imminente.
C’è molta diffidenza tra questi due mondi, il mainstream/pop e lo sperimentale, tra cui mi sembra anche abbastanza sciocco tracciare una linea netta di separazione così approssimativa, nonostante il panorama attuale possa suggerire che non ci sia contatto tra queste realtà.
Vero è che, in Italia, quando un artista tenta di superare i propri limiti di genere, mettere un passo in uno di quei mondi confinanti, spesso deve attendere un certo tempo prima che la natura del suo progetto venga compresa. E così ci sono casi come quello dei port-royal che, sono apprezzati in Italia, ma ancora di più all’estero, sopratutto in Europa dell’Est.
Di Giulia Solari.